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Giuseppe Braga is professor at Università Cattolica and president of IF Italia Forma srl.
D: La codifica dei saperi viene spesso associata ad un procedimento di irrigidimento o di ingabbiatura. Si toglie spazio alle persone o si costruisce una norma che è lontana dalla prassi. Oppure, ad una fotografia che appartiene già al passato.
R: Credo che nessuna persona di buon senso possa sostenere che l’aver formalizzato la musica l’abbia irrigidita, l’aver formalizzato un copione teatrale lo abbia irrigidito. L’irrigidimento non è insito nella formalizzazione. Dobbiamo lavorare in quello spazio c’è tra il sapere formalizzato e la capacità delle persone di usarlo creativamente. Ho sempre ritenuto assurda la cultura che sostiene che formalizzare i saperi vuol dire irrigidirli. Quello che è più valido anche in questo caso è il paradosso: chi più ha un sapere formalizzato più è libero e creativo nell’usarlo; fino a staccarsene e fare in un altro modo, perché almeno è consapevole di quello che sta facendo. Perché lo dòmini, perché hai fatto lo sforzo di concettualizzarlo, di averlo in modo esplicito e condiviso. Questa non è una libertà stupida ma è una libertà che lega il sapere al risultato da produrre.
Un modo per mantenere un aspetto generativo al sapere è quello di aggregarlo sempre per risultati. Lasciando poi nel rapporto tra know how e risultato il segno matematico che dice che il risultato è sempre maggiore del mio know how. Il risultato è un atto creativo che io devo continuamente saper reinventare; il risultato appartiene al mondo fenomenologico e della realtà; anche volendo io non saprei ripetere un risultato assolutamente identico. Il know how deve avere questa forza centripeta ed essere legato al risultato da produrre. In mezzo c’è lo spazio della persona, che si muove tra come dovrebbero essere le cose (perché sono scritte, condivise, patrimonializzate) e come di fatto si attuano e si fanno. Quindi io rifiuto l’affermazione che il formalizzare i saperi irrigidisca. Può irrigidire; quando c’è un falso rapporto con i saperi; quando si dimentica quella che è la definizione fondamentale di un’organizzazione che è “Un insieme di risorse finalizzato ad un obiettivo/risultato”. Dalla più piccola organizzazione alla più grande. Il know how deve rimanere in questa dinamica, finalizzata ad uno scopo.
D: Quali sono le condizioni per una efficace gestione dei saperi nelle organizzazioni?
R: L’attenzione va spostata sulla cultura organizzativa. E chiedersi, ancora prima di lavorare sui saperi, se quell’organizzazione lavora per risultati o, ancora meglio, per sfide. Le eccellenze le osserviamo quando si riesce a costruire un buon equilibrio tra modalità di gestione dei saperi taciti (anche con l’utilizzo di tecnologie Web e azioni organizzative ad hoc come le Comunità di Pratica) e modalità di gestione dei saperi espliciti. Su questo secondo fronte le pratiche migliori aggregano il sapere per risultati, per output professionali, creando dei meccanismi stabili di aggiornamento dei saperi attraverso figure di ownership. Non credo ci siano da fare delle grandi invenzioni. Bisogna che le funzioni apicali riconoscano che oggi il knowledge management non è un processo di supporto ma un processo abilitante l’organizzazione. E ogni volta che vado in scena, ho a disposizione e utilizzo creativamente dei canovacci che mi sono di supporto e che io posso volta per volta migliorare, attraverso l’uso. L’uso è l’elemento che traina e che deve essere messo al centro anche del sistema di governo e di incentivazione.
D: Il quadro che oggi abbiamo di fronte vede le organizzazioni sistemi aperti e interconnessi. Quello che dici sembra presupporre organizzazioni con confini ben definiti e stabili. Oggi non solo le organizzazioni sono distribuite globalmente ma sono soprattutto interconnesse con altre organizzazioni, e sono caratterizzate da confini mobili e porosi, con attività chiave collocate presso il cliente (sempre più coinvolto nei processi di creazione del valore) o presso fornitori partner. Come cambiano questi modelli di gestione del know how? Come puoi dare forma ad un sapere che è un po’ qui, un po’ lì, un po’ dappertutto?
R: In effetti oggi l’organizzazione non è più monolitica come qualche decennio fa ma è liquida e sparpagliata ovunque. Noi oggi dobbiamo guardare alle organizzazioni come entità scomponibili e ricomponibili, come strutture Lego in continuo movimento cioè in continuo montaggio e smontaggio. Naturalmente penso ai processi di delocalizzazione, internazionalizzazione, ma anche alle acquisizioni, alle integrazioni ecc. Dobbiamo chiederci: qual è – in questa continua ricomposizione – l’unità base dell’organizzazione? Per individuare l’unità base io devo trovare l’unità più piccola di un’organizzazione che merita ancora la definizione di organizzazione, “un sistema di risorse integrate per garantire un risultato”. Torniamo dunque al concetto di risultato. Se ho aggregato i saperi con questo criterio anche loro, come l’organizzazione, sono continuamente scomponibili e ricomponibili. E più ho formalizzato più sono in grado di scomporre e ricomporre in modo creativo e libero.